lunedì 24 marzo 2014

Solidarietà postuma a Enrico Berlinguer


Sì: solidarietà a Berlinguer. E' quella che mi sento di esprimere a un protagonista di spicco della vita politica italiana quando questo termine aveva ancora un significato e pure a coloro che lo avevano sinceramente a cuore e lo ricordano con affetto e rimpianto. Un uomo della cui visione condividevo ai tempi e vado avanti a condividere poco o nulla, che ho sempre reputato come un avversario, degno però della massima considerazione e stima, che si era meritato da chiunque per il solo modo di essere e di porsi, a differenza dei suoi epigoni odierni che ora lo santificano dopo averlo incessantemente tradito, con parole e opere, millantando una rispettabilità fondata sul mito di una supposta diversità dell'allora PCI, che già stava andando in frantumi quando l'ultimo suo segretario all'altezza del suo compito era tra i rari dirigenti a incarnarla. Mi riferisco alla pletora di personaggi appartenenti al milieu politico-editorial-cultural-imprenditoriale romanocentrico che sabato scorso hanno sciamato a bordo di decine di auto blu di servizio o di rappresentanza nei pressi dell'Auditorium Parco della Musica della capitale in occasione della presentazione della pellicola-documentario "Quando c'era Berlinguer" girata da Walter Veltroni, a cui è stato dato il  più ampio risalto possibile su tutti mezzi di comunicazione disponibili. Bastava vederli, o leggere l'elenco dei loro nomi, per farsi assalire dalla nausea: un autentico insulto alla memoria di un uomo serio, ammodo, onesto. Non "il primo" e l'unico ad avere sollevato l'esistenza di una "questione morale" in questo Paese molto in anticipo su "Tangentopoli", ché anche questa è un'esagerazione: ma sicuramente fra i pochissimi degli appartenenti al ceto politico, e il più autorevole. Per questo fu violentemente attaccato da parte di assai meno autorevoli membri del suo stesso partito, a cominciare da Giorgio Napolitano, monarca della repubblica dalla lacrima facile, ai tempi capo della corrente filocraxiana del PCI. Del resto sono sufficienti le immagini dell'altra sera per rendere plasticamente l'abisso che separa questa accozzaglia di inetti, traditori, profittatori, vanagloriosi, miracolati, impostori, autentici miserabili epperò in gran tiro e magari in abito da cerimonia come l'immondo Scalfari, dal "santino" che loro stessi si sono costruiti per esibirsi nella celebrazione postuma del trapassato che, a trent'anni dalla scomparsa, era venuto il momento di beatificare, probabilmente per galvanizzare ciò che resta del corpo elettorale del PD in vista delle europee, oltre che nel disperato intento del suo stato maggiore, del governo attualmente in carica e dei loro nettaculi di complemento di ridarsi una patina di credibilità, cercando di risplendere di luce riflessa. Eppure questo aborto di partito è il risultato, per quanto obbrobrioso, della più celebre pensata di Enrico Berlinguer, perché fu lui a teorizzare, negli anni Settanta, la necessità del Compromesso Storico, ossia della collaborazione tra le forze marxiste e cattoliche: un consociativismo sostanziale e una divisione tacita dei ruoli già praticata in realtà dal primo dopoguerra, a cui Berlinguer diede dignità ideologica e che fu la giustificazione teorica di tutti gli inciuci che sarebbero seguiti, compreso l'attuale. Come qualcuno ricorderà, una delle motivazioni ricorrenti era stata la supposta impossibilità, dopo il rovesciamento del legittimo governo del socialista Salvador Allende avvenuto l'11 settembre 1973 in Cile ad opera dei militari guidati da Pinochet e la supervisione e il finanziamento del golpe da parte degli USA, di governare un Paese sotto la sfera d'influenza statunitense con la sola maggioranza parlamentare (eppure la chiamano "democrazia" e si peritano di esportarla...). Dopo aver passato sotto silenzio il golpe argentino del 24 marzo 1976 (il 38° anniversario cade proprio oggi), forse perché l'URSS era uno dei più importanti partner commerciali del Paese sudamericano, in procinto di diventarne in seguito il principale, pochi giorni prima delle elezioni politiche che diedero il massimo storico di voti al PCI (il 34,37% il 20 giugno del 1976), in un'intervista a Gianpaolo Pansa sul Corriere della Sera Berlinguer dichiarò di ritenere che l'Italia non dovesse uscire dalla NATO perché si sentiva più tranquillo sotto il suo ombrello protettivo: fu un duro richiamo alla realtà per me che pure in precedenza avevo apprezzato l'uomo  per essere stato tra i rari esponenti comunisti fuori dal Patto di Varsavia a esprimere un "atteggiamento critico" nei confronti del regime sovietico, prima timidamente dopo la repressione della Primavera di Praga nel 1968, in seguito con più decisione, ma la "svolta" sulla NATO mi sarebbe rimasta sul gozzo fino a oggi (per la cronaca, ricordo che votai DP, come sempre "con riserva mentale" e non PCI: erano le prime "politiche" della mia vita). Non furono solo queste le prese di posizione di Berlinguer che ancora oggi mi fanno dubitare sul suo acume politico: cito a titolo di esempio l'aver promosso la carriera di un tale Massimo D'Alema, mandandolo prima  a dirigere la FGCI dal 1975 al 1980 senza neppure esservi iscritto, e poi a fare prove generali delle sue capacità manovriere in Puglia, dove avrebbe creato il suo feudo elettorale e non solo; le titubanze ad affrontare il referendum sul divorzio che si tenne nel 1974 e che fu un segno di svolta nella lotta per i diritti civili in Italia; la puerile e patetica ostilità ai radicali che ne avevano preso l'iniziativa; la totale incomprensione dei cambiamenti epocali che stavano alla base delle motivazioni del Movimento del 1977 e della cui durissima repressione il PCI fu il vergognoso paladino (erano gli anni del sostegno esterno al Governo di Solidarietà Nazionale: come si può vedere niente di nuovo sotto il sole. Ricordo che a presiederlo fu Giulio Andreotti, e ministro di Polizia un certo Francesco Cossiga, peraltro cugino di Enrico Berlinguer); incomprensione che avrebbe portato quattro anni dopo alla definitiva sconfitta del PCI e dei sindacati sul fronte del lavoro e alla "marcia dei 40 mila" a Torino, nonostante il segretario si fosse presentato in versione velleitariamente barricadera ai cancelli della FIAT; ma ciò che uccise il Berlinguer politico, prima che uno sciagurato ictus a Padova nel giugno del 1984 ne schiantasse la fibra umana, fu la gestione dell'Affaire Moro e la "linea della fermezza" tenuta durante il suo rapimento nella primavera del 1978. Ciò non toglie nulla alla figura umana, morale e all'onesta intellettuale (e di conseguenza alla buona fede all'origine dei suoi errori) di Berlinguer e perfino quella politica, che io pure metto in discussione, risulta ingigantita rispetto ai nani che ora la strumentalizzano. Non se lo meritava, uno spettacolo così indecoroso, un uomo come Enrico Belringuer. Eppure ancora una volta sembra operare inesorabilmente la legge del contrappasso. Un uomo per bene, schivo e riservato come lui rimane vittima dell'adulazione di un ceto politico autoreferenziale, osceno e impresentabile che finge di rimpiangerlo e prenderlo a modello; oggetto di un culto della personalità sfacciato e della mistificazione sistematica, che sono fra i tratti che accomunano e attraggono inesorabilmente, oltre che un credo salvifico in un al di là (o addavenì) fantomatico, ideologie o credenze totalitarie come comunismo e cristianesimo (in Italia nella forma cattolica). E anche il fascismo aleggia nei paraggi. Quanto al film, non giudico prima di averlo visto, ammesso e non concesso che me ne rimanga la voglia. Essendo abbonato a SKY ho già contribuito al suo finanziamento: tanto basta e alla mala parata lo vedrò in TV. Di sicuro Veltroni capisce più di cinema che di politica: i danni procurati alla comunità saranno comunque limitati. 

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